Lockdown mini-midi o maxi, ristori che difficilmente faranno ripartire l'economia e una politica del lavoro che tampona l'attuale situazione senza però avere una visione più ampia e del lungo periodo, con possibili e pericolose conseguenze.
Nell'intervista resa a Federlavoro, l'Avv. Carlo Fossati (senior partner del prestigioso studio Ichino Brugnatelli e Associati, segnalato dal Sole 24 Ore tra gli studi legali dell’anno 2020 per l’area “Diritto del lavoro e welfare”) dipana i punti più controversi e le tendenze che si profilano sul fronte del diritto del lavoro a seguito dell'emergenza Covid-19.
Intervista a Carlo Fossati, senior partner dello studio legale Ichino Brugnatelli e Associati
Dal suo osservatorio privilegiato, quali nuove tendenze - nate con il Covid o per il Covid - si profilano sul fronte del diritto del lavoro? E quali di esse potranno continuare nel lungo periodo?
Lo strumento che ha registrato la più forte accelerazione è lo smartworking, anche se con alcuni distinguo. Nelle grandi corporation, come pure nelle multinazionali e nelle realtà di servizi altamente qualificati (finanza, revisione e consulenza strategica etc), è lecito ipotizzare che il fenomeno diventerà progressivamente strutturale. Ci si è infatti accorti che lo smartworking funziona, che l'impresa risparmia nella gestione di uffici e facilities e che i lavoratori (professionisti di fascia alta che risiedono in contesti abitativi adeguati e “protetti”) l'apprezzano. Diverso è invece l'approccio su altre tipologie di lavoro e di lavoratori.
Lo smartworking, almeno nelle fasce lavorative altamente professionalizzate, si affermerà dunque come diritto acquisito?
Questo lo escluderei: potrebbe forse accadere nella PA (dove si ravvisano già pronunce giurisprudenziali che interpretano in quella direzione l'attuale quadro normativo), ma nel privato siamo ancora molto lontani e in ogni caso sarebbe necessario un intervento normativo. Inoltre con il tempo lo stesso smartworking mostrerà il suo volto meno gradevole: oltre al rischio di desertificazione delle zone centrali delle grandi città, con conseguenze drammatiche sul mercato immobiliare e sui servizi che si affacciano su piazze affari vuote, l'assenza di confini tra lavoro e tempo libero potrebbe rivelarsi un boomerang.
Quali ripercussioni potrebbe avere l'affermarsi dello smartworking sul piano giuridico e sul piano della contrattazione collettiva?
La prima conseguenza è che occorrerà inventarsi un modo nuovo di misurare la prestazione: lo smartworking smantella infatti il tradizionale paradigma del rapporto subordinato quale obbligazione di mezzi, che si contrappone al lavoro autonomo quale obbligazione di risultato. Il tempo dedicato al lavoro non potrà più essere un parametro retributivo: occorrerà operare una valutazione di risultato. E questo potrebbe trainare anche un uso più ampio del welfare aziendale: tempo contro denaro lasceranno il posto a risultati a fronte di un pacchetto più ampio di servizi, non solo in denaro.
Andrà poi ripensata l'intera logica delle relazioni industriali: la logica sindacale, il modo di fare proselitismo e il modo di gestire i conflitti.
Un fattore “dopante”, capace di falsare in maniera profonda le dinamiche del mercato del lavoro, è il divieto di licenziamento, prolungato fino a Marzo 2021...
Il divieto che vige in Italia, non condizionato e perdurante nel tempo, è un unicum: gli altri paesi europei, a parte i primissimi periodi, hanno tendenzialmente lasciato al datore di lavoro la scelta tra licenziare o accedere agli ammortizzatori sociali.
Da noi, dopo una prima scadenza ad ottobre ed una proroga a dicembre, che condizionava però il divieto di licenziamento alla possibilità di utilizzare la cassa integrazione o la decontribuzione (peraltro con tempi diversi rispetto allo stato di emergenza, all’epoca destinato a finire ad ottobre), si è tornati ad un divieto assoluto di licenziare fino a Marzo 2021. Con evidenti criticità su più piani.
Qualche idea ce l'abbiamo, ma ci illustri la sua...
Un primo aspetto è che ogni mese questo divieto costa allo Stato miliardi in una cassa integrazione volta a mantenere artificiosamente in vita dei posti di lavoro che, nei fatti, non esistono già più. I datori di lavori stanno ormai da tempo ripensando le aziende: non appena cesserà il divieto, tutte le riorganizzazioni del personale avverranno nello stesso momento, con un impatto sociale potenzialmente deflagrante. Milioni di disoccupati e zero risorse per operare politiche attive sul mercato del lavoro.
Ma prima o dopo questi soldi – ammesso che arrivino davvero dall'Europa – dovranno essere spesi: cosa cambia?
Cambia tutto perché tenendo artificiosamente bloccate le imprese, si impedisce alle stesse di ripartire, si rallentano i tempi nei quali esse potranno tornare ad essere competitive e quindi ad assumere. Per non parlare della diffidenza degli investitori stranieri verso un paese che impone un divieto assoluto (e tanto prolungato nel tempo) di gestire gli esuberi. Aggiungo che anche il dipendente in cassa integrazione è portato a non cercare alternative occupazionali, a differenza di chi il posto di lavoro l’ha perso, che si muove risolutamente sul mercato anche se percepisce una qualche indennità di disoccupazione. Insomma si rallenta tutto, e senza particolari vantaggi per nessuno, se non per chi governa e sceglie di ritardare le tensioni sociali.
Il tutto in un sistema che dice stop alle stesse imprese alle quali ha imposto onerosi adeguamenti...a questo punto, una domanda secca: ne usciremo migliori o peggiori?
Nel breve termine credo che – con buona pace della retorica da balcone - ne usciremo peggiori, perché le crisi gravi spesso mostrano il peggio di ciascuno di noi. Nel medio termine però, quando vedremo la luce alla fine del tunnel, credo potremo liberare energie nuove, creative e sorprendenti.